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| In questa pagina andremo brevemente a descrivere e ricordare con voi alcuni mestieri legati all'agricoltura e all'artigianato tipici della cultura e tradizione nell'est veronese ed in particolare della Val d'Illasi. Fino agli anni Trenta i paesi presentavano 
        un aspetto molto diverso dallattuale sia sotto il profilo delle 
        attività commerciali che della vita quotidiana. A quei tempi, non 
        esistevano naturalmente i supermercati o i centri commerciali, inoltre 
        i mezzi di trasporto e gli spostamenti da un paese allaltro erano 
        assai rari. Nell'ambito di un'economia basata sulla sussistenza, i mestieri 
        rispondevano anche alla necessità di fornirsi autonomamente dei 
        beni indispensabili alla vita, come cibo, indumenti, calzature, attrezzi 
        da lavoro.  Ci arte no sa far, botega sara. L'arte aguzza l'ingegno dicevano i nostri nonni e loro d'ingegno ne avevano tanto anche nel crearsi un mestiere. Le rintronanti grida e i canti che accompagnavano alcuni lavori sono divenuti remoti ricordi insieme ad alcune arti e mestieri che per un lungo periodo sono stati parte della vità dell'uomo, patrimonio della cultura di un popolo. Sopravvivono alcune (sempre meno) testimonianze trasmesse per lo più per via orale e quindi molto labili, per questo ci teniamo a trasmettere quanto da noi reuperato. 
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| Gli ambulanti sono dei venditori di strada, molto spesso viandanti, che si guadagnano da vivere spostandosi di paese in paese a proporre la loro mercanzia o la loro arte. Quando ancora i mezzi di trasporto non erano così diffusi era il venditore a spostarsi, arrivando direttamente nelle case e nelle contrade a proporre i suoi prodotti in cambio di denaro, ma anche barattando la propria merce con altri prodotti. L'ambulante viandante lasciava la sua casa e la sua famiglia soprattutto in autunno e vi ritornava in primavera. Viveva di poco e dormiva in qualche stalla o dove trovava ospitalità, senza fissa dimora. La sosta durava lo stetto necessario per il suo lavoro per poi spostarsi più avanti. Seguiva un percorso consuetudinario e prestabilito anno dopo anno, un tragitto ereditato dal padre o da chi gli aveva insegnato il mestiere. La gente attendeva il suo arrivo per farsi riparare e sistemare qualcosa, per un piccolo acquisto o per curiosare e conoscere le ultime novità. La loro presenza era sempre un piccolo avvenimento, un invito ad affacciarsi fuori dalla porta, che interrompeva la solita quotidianità della giornata. Spesso l'ambulante portava con se gli attrezzi che gli servivano per svolgere la sua attività e lavorava sul posto come nel caso di arrotini, ombrellai, spazzacamini, etc. Gli bastava una cassettina o una cesta per riporre il materiale o al massimo un carrettino per trasportare i ferri del mestiere come lime, spazzole, corde e quel poco di cui necessitava. Annunciava il suo arrivo o presenza con 
        un richiamo personale, attirando la clientela con grida emesse 
        a squarciagola, brevi frasi, la sua frase intonata con una personale melodia 
        e vocabolario, la sua personale "pubblicità orale". Done el paroloto, el stupa un buso e el ghe ne fa oto (donne lo stagnino, tappa un buco e ne fa otto). Fero vecio, done, Cortèi e sisore da gussar, Capitava anche che in determinate stagioni, 
        oppure occasionalmente, la gente portasse al mercato i propri prodotti. 
         
 
 
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| Leggi paragrafo comare e levatrice | 
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 C'è sempre stato un legame profondo tra Verona e il suo fiume anche che si interruppe notevolmente con la costruzione dei muraglioni dopo l'inondazione avvenuta nel 1882. Il fiume Adige è stato in passato molto utilizzato dalle lavandare (lavandaie), dai molinari (mulinai per mulini ad acqua) e dai barcaioli per il trasporto di persone, ma ancor di più delle merci. Lungo le "vie d'acqua" vi era una vera e propria navigazione che collegava i vari paesi e città lungo i fiumi Adige e Po già a partire dal 1100 con delle lotte per il potere e controllo sulla navigazione. Il trasporto lungo le vie d'acqua permetteva di effettuare dei carichi consistenti, maggiori certamente di quello che si sarebbe potuto fare con un semplice carro trainato dal cavallo. In più si sfruttava un bene già presente e gratuito: lo scorrere naturale dellacqua. Questa attività di trasporto fu sostituita dall'avvento della ferrovia e con lincremento del trasporto su mezzi pesanti (camion). 
 Numerose ancora oggi le barche e barcaioli che transitano le acque per la pesca di fiume e di lago. Oggi la navigazione lungo l'Adige e sul lago di Garda è utilizzata per lo più per scopi turistici per il trasporto di gitanti che scelgono di fare un giro in barca per ammirare con calma il paesaggio con il lento scorrere dell'acqua. Fra le varie canzoni di tradizione orale che narrano di questo personaggio riportiamo di seguito il testo di Son barcaiolo il cui informatore è Giovanni S. classe 1927 di Grezzana (Vr) Son 
        barcaiol son barcaiolo son de l'arte,  In 
        alto mar che noi saremo O 
        barcaiol, portème a riva Il 
        disonor l'ò perso in barca | 
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 L'arte magica del bottaio era ed è, per quei pochi artigiani rimasti, quella di far aderire le doghe l'una all'altra, tenerle con i cerchi metallici che venivano poste naturalmente all'esterno aiutandosi con uno speciale attrezzo a forma di scalpello smussato con un lungo manico che si colpiva con un martello. Tutto questo veniva fatto senza l'uso di collanti, con cura e professionalità per realizzare dei contenitori che non facevano perdere il liquido contenuto. 
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| I 
        cantastorie erano dei personaggi erranti che portavano informazione nei 
        paesi di provincia raccontando nei loro spettacoli attualità di 
        cronaca e favole per la povera gente quando ancora non esistevano radio 
        e televisione ed i giornali erano letti da pochissime persone.  Oltre all'aspetto esteriore e alla gestualità molti cantastorie si aiutavano utilizzando un cartellone illustrato, una tela dipinta e divisa in riquadri dove vi erano rappresentati i passi principali del loro racconto. 
 Durante i loro spettacoli vendevano i "fogli volanti" su cui erano scritti i componimenti della loro cantata. Alla conclusione della recita oltre agli applausi si aspettavano anche qualche moneta in cambio della loro esibizione. Nelle nostre valli il cantastorie veniva chiamato torototela. Lo si vedeva soprattutto nei mesi invernali, quando cioè la gente aveva più tempo per stare ad ascoltarlo. Dormiva dove capitava, spesso nelle stalle delle famiglie che li ospitava per una notte. Dalla metà del Nocevento la figura del cantastorie si è molto ridotta, oggi se ne contano poche decine in tutta Italia. | 
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 Il materiale di partenza è la legna che viene tagliata in varie misure e accatastata in una piramide attorno a dei pali verticali (castelletto) che fanno da camino alla carbonara. I vari pezzi di legna di varie lunghezze e spessore vengono disposti ad arte cercando di non lasciare spazi vuoti, ma permettendo però la giusta areazione durante la combustione. Una carbonara di discrete dimensioni richiede circa 80-100 quintali di legna. Una volta pronta la catasta di legna viene ricoperta da terra e fogliame. 
 
 
 Dall'alto 
        del foro si introducono dei pezzetti sottili di legno di 4-5 centimetri, 
        gli gnocchi, che servono a tenere accessa la carbonaia così 
        che possa covare e consumarsi lentamente. 
        Intanto con lapposito fumaiolo si fanno dei fori laterali alla carbonaia 
        lasciando fuoriuscire il fumo.  Ogni 
        anno sono numerosi gli amici, le scolaresche e appassionati che arrivano 
        a Giazza (Vr) a guardare la carbonara e tenere compagnia alla famiglia 
        Boschi che immancabilmente fa trovare una fetta di salame con la polenta 
        e una tazza di caffè per i suoi ospiti. 
 E' 
        necessaria molta attenzione ed esperienza per tener conto delle numerose 
        variabili che determinano il buon andamento del processo.  A questo punto si toglie la terra e il carbone prodotto viene steso e lasciato raffreddare per qualche ora per poi essere riposto in sacchi e trasportato in luogo asciutto dove viene conservato fino al suo utilizzo. 
 
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| CAREGHETA (impagliatore di sedie) La principale attività del caregheta consiste nel rifare la base del sedile delle sedie. L'impagliatore tira, annoda, contorce e intreccia fili d'erba fino a ricavarne un cordone che si allunga mano a mano che procede con il suo lavoro e in base alla necessità inserendo altri fili di paglia e avvolgendo così tutto il sedile fino a ricoprirlo interamente creando delle particolari forme geometriche a rombi o triangoli di diverse sfumature (l'immagine che segue ne mostra un esempio). 
 
 Con la sostituzione delle sedie impagliate con seggiole plastificate o imbottite di altro materiale è andato di conseguenza quasi scomparendo il lavoro e la figura del caregheta, oggi è ormai un'arte conosciuta da pochi appassionati. 
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| Il 
          carrettiere l'è un bel mestiere s'ciocar la scuria 
          (schioccare la frusta).... così gridava il carrettiere quando 
          entrava in paese facendo lo spaccone per farsi notare dalle ragazze. Il 
          carrettiere di un tempo non aveva padroni e di questo era orgoglioso. 
          Generalmente erano di sua proprietà sia il carretto che il cavallo. 
          La forma di pagamento era quella a viaggio, la retribuzione era pattuita 
          in base al percorso da compiere e al tipo di merce da trasportare.  El 
          caretier partiva la mattina presto, quando era ancora buio, mangiava 
          qualcosa seduto sul carretto e poi la sera, poi quando era di nuovo 
          buio tornava a casa. Durante questi lunghi tragitti alleggeriva la pesantezza 
          della monotonia e la solitudine improvvisando stornelli incentrati sul 
          proprio lavoro o sulla propria ragazza. 
 I carrettieri hanno da tempo abbandonato carro e cavallo sostituiti dai camionisti che con i loro bisonti percorrono veloci le strade di paesi e città trasportando grandi quantità di merci. Di seguito un canto narrativo che ci ha insegnato Nani salata (Giovanni Salvagno) di Grezzana. Una canzone d'amore dedicata ad un giovane minatore morto nella miniera di lignite del Vajo Paradiso. Il caretiere Il 
          caretiere è un bel mestiere  E 
          la sente el s'cioco de la scuriada Ero 
          sul ponte che lavoravo Poi 
          giunti i sbiri e la sbireria M'anno 
          condoto in una gran sala L'esaminatore 
          l'era un bonomo M'à 
          domandato nome e cognome La 
          patria mia l'è tirolese Il 
          caretiere è un bel mestiere  | 
| CASARO 
        (fare formaggio) 
 Il 
        luogo adibito a fare il formaggio è la casara, ma negli 
        alti prati della Lessinia, dove d'estate vengono portate le mucche, vi 
        è anche un altro edificio che viene utilizzato per fare il formaggio: 
        il baito. Nel caseificio vi è uno stanzone adibito alla 
        conservazione del latte, uno per la lavorazione chiamato el logo del 
        fogo (fuoco) e uno o più locali per la conservazione delle 
        forme di formaggio che vengono riposte su appositi scaffali a riposare 
        e stagionare. 
 
 Dove invece non è possibile lavorare sul posto il latte passa el lataro (lattaio) a prelevare il raccolto dalla mungitura delle vacche, capre e pecore, oggi con l'utilizzo di moderne autobotti, e lo trasporta nei caseifici del territorio o della pianura per la lavorazione e trasformazione in formaggio. Con le sue mani esperte e l'utilizzo di appositi attrezzi e macchinari il casaro è in grado di lavorare il latte e con dei precisi procedimenti e ingredienti trasformarlo in burro, ricotta, mazzarella, yogurt e formaggi di vario tipo, stagionatura e misura. E' compito del casaro anche passare a controllare le forme di formaggio, salarle, girarle per farvi prendere aria, spazzolarli dalla muffa in eccesso e tutte quelle operazioni necessarie finché il prodotto è pronto per essere venduto. 
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| COMARE - LEVATRICE (ostetrica) e BAILA (balia) Fino a circa 
        cinquant'anni fa le donne partorivano normalmente da sole in casa, ancora 
        meglio in camera da letto.  Molto raramente 
        si interpellava un medico, soprattutto per le ristrettezze economiche 
        che impedivano di retribuire la sua prestazione. 
 Se la mamma 
        non ha latte spontaneamente il neonato viene affidato per l'allattamento 
        ad un'altra donna che di latte ne ha in abbondanza, non era difficile 
        trovare altre neo-mamme nelle vicinanze. La mamma consegna quindi il figlio 
        alla baila (balia) per il periodo 
        necessario all'allattamento ricambiando come può l'aiuto nel momento 
        di difficoltà. Il neonato diventerà fradel 
        de late (fratello di latte) con i figli naturali di costei. Vi 
        erano donne che facevano la "baila di professione" facendosi 
        pagare in cambio del latte per il neonato... in tempi di grave crisi economica 
        ogni strumento era buono per raccimolare qualcosa. 
 Un discorso 
        a parte va dedicato alla coarantia cioè 
        al periodo dei quaranta giorni dal parto perché fin 
        che no l'è sta benedia la ga el diaolo a schena ossia finché 
        la donna non riceve la benedizione dopo la quarantena si pensa che sia 
        impossessata dal diavolo e per tale motivo non può né uscire 
        di casa né tantomeno occuparsi delle faccende domestiche. Queste 
        credenze popolari erano comunque utili alla partoriente per lasciarle 
        il tempo di riprendersi e tornare in forze. El 
        mal che se ciapa in coarantìa, e che in coarantìa no 'l 
        vaga ia, no 'l va pì ia (il male che si prende durante 
        la quarantena e che non guarisce in quel periodo non se ne andrà 
        più via).  La levatrice era una posizione di rispetto sociale alla stregua del medico, del parroco e del spessiàl (farmacista) del paese. La comare veniva inoltre interpellata anche per eventuali interruzioni di gravidanza. Molte volte la comare accompagnerà poi il neonato al battesimo facendogli da madrina, una sorta di seconda mamma. 
 Dal 1888 
        (Governo Crispi) venne emanata una legge che regolava l'abilitazione alle 
        donne che frequentavano il corso e il successivo esame di ostetrica/levatrice. 
        Queste donne erano quindi più preparate ad intervenire a casa diminuendo 
        notevolmente i casi di mortalità dovute al parto e le infezioni 
        causate dalla mancanza di norme igieniche con l'obbligo di chiamare il 
        medico a casa se durante la nascita vi fossero state delle complicanze 
        per la puerpera o per il neonato. In Lessinia orientale molto note come 
        comari erano la Pulchiria di Velo (la comarona de Velo) e la Lucia di 
        Badia Calavena. 
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          Il famiglio era un giovane ragazzo che, a causa delle ristrettezze economiche, 
          veniva inviato a lavorare in cambio di vitto e alloggio, una normalità 
          ai primi del 1900. Un detto popolare dice che se 
          no gh'è farina 'ntel casson gh'è el diaolo 'ntel canton, 
          una fame vecchia, antichissima che pretende la pancia piena. I faméi 
          sono ancora bambini quando si devono staccare dalla loro famiglia e 
          andare presso altre case a fare lavori da grandi. Spesso la trattativa 
          avveniva durante la fiera di San Martino (11 novembre) a Tregnago. Il 
          contratto da faméo prevede di star via di casa fino alla fiera 
          dell'anno successivo, ma a Pasqua qualcuno ritorna a casa per qualche 
          giorno.  | 
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 Per tanti 
        secoli i cavalèri (i bachi da seta) 
        furono considerati una vera e propria ricchezza e fonte di reddito per 
        tante famiglie contadine di molte zone dItalai, anche nella zona 
        orientale del veronese. I contadini misero a dimora una grande quantità 
        di moràri (gelsi) intervallandoli 
        nei campi con le viti, oppure lungo i fossati. La foglia dei moràri 
        era l'alimento principale dei bachi da seta.  L'allevamento dei cavalèri iniziava nel mese di aprile (tradizionalmente il giorno di san Marco, il 25 aprile) e per farli crescere venivano alimentati con le foglie dei gelsi ogni tre ore, giorno e notte. Nei primi venti giorni dalla loro nascita stavano in cucina, dopo si portavano in camera da letto dei ragazzi o nel granàr (granaio), ovvero in ampie stanze ben chiuse e calde, dove erano coperti con paglia e bastoni raccolti durante i mesi invernali sopra a lettiere e graticci. 
 
  La larva 
        allo stato adulto raggiunge i 9 centimetri e supera i 4 grammi. Ai primi 
        di giugno i bachi (galete) erano pronti per 
        la raccolta, perciò la famiglia, con qualche aiutante, si disponeva 
        attorno ai bozzoli e iniziava a staccarli e separarli in diversi gruppi, 
        i bianchi, i gialli, quelli macchiati e quelli incompleti, ai quali corrispondevano 
        prezzi diversi legati appunto alla qualità del baco da seta.  
 Solo una piccola quantità di bozzoli arrivava a completare la metamorfosi, quando il bruco si trasforma in crisalide e poi in farfalla che uscirà dal guscio per deporre le uova. Per uscire dal bozzolo la farfalla fa un foro rendendo così il filo di seta di seta inutilizzabile. Dalla metà dell'ottocento la produzione di seta viene prodotta sempre meno a livello casalingo, ma nelle filande (fabbriche che lavorano la seta). All'inizio le filande non erano che edifici di campagna di proprietà del padrone della terra nei quali si lavorava solo d'estate. Con lo sviluppo industriale le filande divennero numerosissime, spesso in mano agli stessi mercanti di seta. La manodopera era fatta di giovani ragazze per lo più contadine che per arrotondare il magro bilancio della famiglia, accettavano situazioni di lavoro pesantissime, dalle undici alle quattordici ore giornaliere, in condizioni igieniche spesso malsane e con salari bassissimi. 
 
 Nelle filande 
        si provvedeva al soffocamento dei bachi mediante stufatura in forni statici 
        o girevoli. L'immersione in acqua bollente permetteva il dipanamento del 
        filo di seta sciogliendo parzialmente lo strato proteico di sericina che 
        avvolge il filo di seta.  Da molti anni è ormai scomparsa nelle famiglie veronesi la coltivazione del baco da seta. | 
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 Il carretto passava e quell uomo gridava gelati: così iniziava una canzone di Lucio Battisti del 1972. Infatti i venditori ambulanti generalmente passavano attraverso le strade più importanti di Verona e al suono di una trombetta o di una campanella alternavano il loro grido: gelati, gelati! Lattività di venditore ambulante di gelati risale agli inizi del XX secolo. Nel gelato artigianale l'ingrediente presente in maggiore quantità è il latte seguito dagli zuccheri e dalla panna cui vengono aggiunti i diversi ingredienti che ne danno il gusto per esempio frutta, nocciola o cioccolato, ecc. Un tempo i gelati si preparavano con la neve, o meglio, con il ghiaccio. Nella stagione estiva e durante le feste religiose si era soliti vedere il carretto del gelataio, posizionato in una strada centrale del paese, che serviva i suoi prodotti ai piccoli golosi e agli accaldati avventori. In molti ricordano ancora la sagra paesana e il venditore di granatine che prendeva da un secchio il ghiaccio che grattava con la grattacasola riempiendo un bicchiere in cui poi versava qualche goccia di sciroppo alla menta o amarena, era davvero un'occasione speciale, una festa per grandi e piccini. 
 Nella campagna molto raramente si poteva incontrare un gelataro, per mangiare il gelato si doveva aspettare di andare in città. Il gelataro girava con un carretto poggiato su una specie di bicicletta nelle quali vi erano delle grandi vaschette contenenti il gelato o meglio le creme, sotto vi era la vasca con il ghiaccio. La sua arte stava anche nel mantenere la temperatura costante del gelato per evitare lo scioglimento dello stesso o la formazione di ghiaccioli, al tempo non esistevano ancora i frigoriferi. Il carretto del gelataro era fornito anche di caramelle, pesciolini di liquirizia, lecca-lecca, per attirare lattenzione dei ragazzini e in alcuni periodi dellanno vendeva anche frutti di bosco, soprattutto corbezzoli, che preparava in cartocci di carta spessa, sagomati a forma di cono. Era un tipo simpatico e spesso inventava battute, modi di dire o brevi proverbi e storie gioiose rigorosamente in dialetto, che avevano lo scopo di richiamare e invogliare i passanti allascolto solleticando i loro palati allassaggio dei suoi gustosi prodotti. | 
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 I 
        giassarói tenevano continuamente docchio le pozze dellacqua 
        piovana. Esse venivano puntualmente pulite, durante lestate, prima 
        che cominciassero le piogge e i freddi autunnali. Quando poi avevano certezza 
        che si era formato un certo spessore di ghiaccio, con degli appositi attrezzi 
        da loro inventati, contrassegnavano la superficie dello stagno con dei 
        riquadri, solcavano lo spessore con delle scuri molto affilate, lo tagliavano 
        in lastre regolari lunghe e larghe 80 centimetri, lo spessore, invece, 
        variava in base alla temperatura. Ottenevano così dei lastroni 
        che una volta tagliati, venivano arpionati e tirati sullacqua fino 
        al limite della pozza con dei ganci forniti di manici di legno. 
 
 La giassàra del Grietz o "Gries", come viene denominato in dialetto, si trova nella omonina contrada di Bosco Chiesanuova all'interno del parco della Lessinia. E' stata costruita intorno al 1870 da Innocente Menegazzi di professione "murador" (muratore) che abitava in contrada Sponda. Questa giassara è tra le più belle ed originali della Lessinia soprattutto per la morfologia dell'appice di copertura, cioè il tetto che si presenta slanciato e spiovente in laste di pietra. 
 
 Le 
          giassare generalmente hanno due "bocàre" (aperture): 
          la più bassa per riporre i blocchi di ghiaccio che si estraevano 
          dalla pozza, l'altra a livello della strada per caricare il ghiaccio 
          direttamente sulle carrette e portarlo in città. | 
| El 
        lataro (lattaio) faceva il suo giro quotidiano per le case, di 
        buon mattino, per consegnare il latte fresco a domicilio. I ritiri del 
        latte li effettuava la mattina presto, appena munto dalle vacche delle 
        stalle vicine e poi partiva per le consegne a domicilio. Girava con un 
        carretto o in bicicletta con appesi ai lati i bidoncini di latta contenenti 
        il latte da distribuire... chi ne comprava un litro, chi mezzo, chi un 
        quarto, non tutti si potevano permettere di acquistare quotidianamente 
        il latte.  
 Annunciava 
        il suo arrivo con grida o col suono del campanello della bicicletta. Davanti 
        alle porte che lui sapeva, fermava il carretto o la sua bicicletta, che 
        appoggiava sul cavalletto o al muro di casa, riempiva la bottiglia o i 
        recipienti che aspettavano in bella mostra davanti alla porta, risaliva 
        in bicicletta e via, verso unaltra casa. Talvolta cera qualcuno 
        ad aspettarlo con il contenitore in mano.    Quello 
        del lattaio era un mestiere d'altri tempi, molto importante, ma anche 
        molto faticoso. Il lattaio che girava per i paesi aveva la pelle screpolata, 
        escoriata dal freddo e dai lavori nei campi e nella stalla. Le sue dita 
        erano gonfie di stanchezza e dal gelo d'inverno e dalle levatacce ogni 
        mattina prima del sorgere del sole.  | 
| La lavandara (lavandaia) era la donna che lavava la biancheria degli altri. Di tale servizio ne usufruivano le famiglie benestanti che potevano permettersi di pagare. Di solito il lavoro veniva svolto da vedove o donne che non avevano di che vivere. Il lavoro veniva eseguito lungo i corsi d'acqua, nei lavatoi pubblici ed anche nelle fontane. Prima dell'arrivo delle oderne lavatrici i panni venivano lavati solo a mano. Lavar le robe (fare il bucato) era un affare serio in quanto richiedeva molta fatica e molto oio de gombio, le donne erano quasi sempre inginocchiate con le mani costantemente nell'acqua. Non esistevano detersivi e ammorbidenti già pronti, bisognava produrli autonomamente. Due tre giorni prima di quando si stabiliva di fare l'operazione di lavaggio, si metteva da parte della cenere del focolare che veniva riposta in un bidone in metallo che si riempiva con dellacqua. Dopo un paio di giorni il bidone si poneva sul fuoco e lacqua contenuta veniva fatta bollire, ottenendo così la lìssia che costituiva il detersivo del passato. Il sapone si produceva cuocendo il grasso del porsel (maiale), profumato con fiori di lavanda o alloro e poi versato negli stampi di legno e fatto raffreddare fino allindurimento. Solo in tempi più moderni si aggiungeva anche la soda caustica. Lo stesso sapone veniva utilizzato anche per ligiene umana, cioè per lavarsi. 
 Fare la lavandara consisteva nellandare nelle case signorili a recuperare i vestiti, caricarseli in spalla o nelle ceste e portarseli al fiume per poi tornare i giorni successivi a restituirli lavati e stirati e riscuotere qualche moneta. Nelle contrade e nei piccoli paesi di campagna erano invece le donne di casa a lavare i panni della propria famiglia. Molto nconosciute le lavandare di Avesa, frazione vicina a Verona che già dal 1500 andavano lungo il fiume Lorì per lavare il bucato, ancor oggi a testimoniare questa attività è la presenza di numerosi lavatoi. Lavare i 
        panni era un vero e proprio rito. Il bucato più piccolo veniva 
        lavato circa una volta la settimana, mentre la biancheria più grande 
        come le lenzuola venivano cambiate e lavate due-tre volte l'anno, generalmente 
        in primavera e in autunno.  
 
 Il bucato veniva poi steso ad asciugare al sole. Una volta asciugata la biancheria veniva diligentemente stirata con il ferro da stiro alimentato dal calore della carbonella e riposta nella cassapanca o nell armàro (armadio) poiché doveva durare il più possibile. I lavatoi costituivano dei veri e propri punti di socializzazione per le massaie, che qui si scambiavano consigli e pettegolezzi, partecipando alle gioie ed alle digrazie le une e delle altre. E 
        anche su questa attività l'estro e la fantasia popolare non è 
        mancata, sono molti i canti narrativi che si sono tramandati fra valli 
        e città d'Italia, fra questi alcuni sul tema la pesca dell'anello. 
        Di seguito la versione veronese da noi raccolta "La bela la va 
        al fosso"  La 
        sbassa li occhi a l'onda 
 E 
        qoan l'avrai pescato 
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 Vedi capitolo COMARE | 
| Il nome è legato all'attività del falegname, il "maestro d'ascia" che in dialetto viene appunto detto marangon. Il falegname è uno dei mestieri più antichi perché il legno era uno dei materiali più usati per costruire carri, utensili per lavorare i campi, telai, attrezzi da lavoro, allestimenti navali. Oltre a queste opere più grezze l'artigiano ha iniziato col tempo a costruire porte, finestre e mobili per la casa sino a creare opere meravigliose. Le case di cento anni fa nelle nostre campagne erano molto spartane e semplici: in cucina c'erano il tavolo, le sedie, la madia e una vetrinetta per le poche stoviglie, in camera solo il letto e il baule che conteneva i pochi indumenti, qualche volta l'armaron (armadio) a due ante. 
 Ormai siamo abituati a comprare mobili in serie ma c'è ancora chi produce artigianalmente mobili di alta qualità: curati nei minimi particolari e costruiti solo con legni pregiati, quali il noce, il castagno, il ciliegio, ecc. | 
| Nel mondo 
        contadino di un tempo il maiale costituiva un'importante ed essenziale 
        risorsa per la famiglia, era l'alimento proteico principale del quotidiano 
        companatico.  
 Il norcino 
        con autorità e con toni secchi ed imperativi, controllava e officiava 
        secondo una esperienza maturata nel corso di tanti anni, attento ad ogni 
        passaggio, pronto a sollecitare il lavoro, controllando modalità 
        e scelte della concia e della pugnatura dell'impasto del salame. Si faceva 
        aiutare nella pelatura del maiale, nel lavaggio dei budelli, nella manovra 
        del tritacarne (fino a poco tempo fa avveniva manualmente), per la riduzione 
        delle carni in pezzi grossolani, per la legatura e la foratura degli insaccati 
        ed altre operazioni minori. Erano in ballo il suo onore, reputazione, 
        notorietà e da queste dipendevano la possibilità di futuri 
        ingaggi. Per uccidere 
        la bestia il norcino affondava con rapidità e sicurezza un coltello 
        lungo e sottile sotto il collo e con un colpo maestro tranciava di netto 
        larteria carotidea per far uscire rapidamente tutto il sangue. Una 
        donna raccoglieva il sangue dell'animale rimestandolo continuamente, perché 
        non coagulasse e non si formassero grumi. Dal sangue, mescolato con farina 
        di grano, zucchero e uva passa si sarebbero poi ricavati i brigàldi 
        o brigàldoli, le morète e i sanguinacci.  La bestia 
        viene stesa su delle assi, si raccoglie il sangue e subito dopo la pelle 
        viene sbollentata con acqua calda e raschiata con la raspa o la lama del 
        coltello per togliere le setole che non devono essere tagliate ma estirpate. 
         Poi si ricominciava 
        il lavoro, le meséne vengono portate dentro e deposte su un tavolo 
        e il mas'ciaro dopo aver staccato la cotenna dalla parte grassa del lardo 
        e della pancetta, tagliava subito alcune braciole, di due/tre costole 
        ciascuna, a seconda della famiglia o del personaggio cui erano destinate, 
        le carni sono tagliate in strisce e macinate. 
 El 
        mas'ciaro preparava poi la consa (concia), la cui ricetta è un 
        segreto professionale del quale erano gelosissimi custodi e che non confidavano 
        a nessuno. Le carni magre e le parti grasse (circa un terzo delle prime) 
        venivano macinate, sistemate in un largo contenitore di legno detto mésa, 
        pesate, conciate diversamente per salami e cotechini, e poi pugnate cioè 
        lavorate lungamente con le nocche delle mani chiuse, finchè la 
        massa diventava via via più compatta. La prova che era pronto la 
        si verificava quando un po dellimpasto sbattuto nel palmo 
        e poi capovolto, restava attaccato alla mano. Era pratica consueta non 
        salare troppo limpasto e per capire quanto sale si doveva ancora 
        eventualmente aggiungere, si metteva un poco di pesto in un tegame, lo 
        si cuoceva sulle braci e tutti i presenti lo assaggiavano. Era più 
        che altro una scusa per mangiare un boccone assieme e bere un goccio di 
        vino. Questo impasto si chiama tastasal e viene utilizzato anche 
        come condimento per un ottimo e saporito risotto.  
 I salami, le pancette, le coppe ed i cotechini vengono disposti sul baldachìn cioè legati sopra una impalcatura che si fissa al soffitto della cantina. É il trofeo della famiglia, che tutti ammirano con occhio compiaciuto. Dopo circa 
        una settimana si mettono in cantina. Con l'accrescimento del benessere collettivo, delle raccomandazioni della medicina sui pericoli del colesterolo "polistirolo", dei "tricicli" cioè dei trigliceridi e della modifica di tipologia delle abitazioni ormai prive della storica e fresca cantina, la pratica de far su el mas'cio in casa si è andata sempre più riducendo. Oggi si va al supermercato. Il maiale non è più considerato come prezioso sussidio alimentare da lesinare con parsimonia per farlo durare più a lungo possibile, ma occasione di vivaci incontri amicali, di feste e sodalizi. | 
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 ll sensaro detto anche mediator è quella persona che, dietro compenso, cerca di convincere due parti a combinare un acquisto per esempio la vendita di una vacca, di un campo, per un contratto di lavoro, ma anche per combinare matrimoni. In ogni paese vi è almeno un mediatore, un intermediario che si prende l'impegno di contrattare, tirando sul prezzo di una merce finché non riesce a strappare l'accordo fra le due parti facendogli stringere la mano. La contrattazione durava per ore, a volte anche per giorni. Spesso avveniva durante il mercato settimanale. Un tempo gli accordi venivano stipulati verbalmente e siglati da un sonora schiaffo di mani o da una stretta di mano, non vi era bisogno di andare dal notaio. Dopo l'affare immancabilmente ci si spostava all'osteria per bere un bicchiere di vino. 
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| El moleta è fra le figure più rappresentative nel mondo dei mestieri ambulanti. Il moleta deve il suo nome all'arnese principale del suo lavoro: la mola (pietra abrasiva), una ruota che girava in base alla velocità con cui l'arrotino pedalava e su cui appoggiava la lama di un coltello o altri arnesi per affilarla (arrotarla) e assottigliarla. Il moleta gussa (aguzza) ferri da taglio come coltelli, forbici, rasoi, attrezzi che spesso vendeva per arrotondare i suoi guadagni. 
 
 Questo lavoro originariamente veniva svolto con un trabiccolo a ruota, una sorta di bicicletta, molto pesante e ingombrante su cui era montata la mola. Sopra la mola vi era collocata una scatola piena di acqua e un rubinetto che gocciolando continuamente impediva alle lame da affilare di diventare troppo calde. A lavoro terminato restituiva gli utensili affilati come rasoi. 
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| Il 
        grano e la farina da esso ricavato sono sempre stati alla base dell'alimentazione 
        dell'uomo. Schiacciando e pestando le varie granaglie si ricavava la farina 
        da cui poi si produceva il pane. L'uomo ha imparato a ricorrere all'utilizzo 
        di mezzi meccanici costruendo prima i mulini a braccio (spinti dalla forza 
        dell'uomo o degli asini) e successivamente i mulini ad acqua.  
 Il 
        molinaro era una professione molto ambita in quanto redditizia. 
        Il mugnaio era preposto all'attività del mulino, ma raramente ne 
        era anche il proprietario. I mulini erano proprietà dei Signori 
        del ceto borghese. Il contadino ha il grano, ma le macine le ha il mulinaio 
        e quindi è proprio quest'ultimo ad avere la meglio. Finché 
        c'è bisogno di pane, c'è bisogno del mugnaio, era questa 
        la forza dei mulinai.  
 
 Chi 
        va al mulino s'infarina.  Il 
        mulino era un servizio sociale che doveva essere assicurato a chiunque 
        ne avesse bisogno. La gente doveva affidare il loro piccolo tesoro di 
        grano a questi uomini avidi e spesso imbroglioni sperando che tornasse 
        nelle loro case tutta la farina ricavata dalla macinazione. Molte le riserve 
        e i sospetti che si insinuavano a tale riguardo fra la popolazione. A 
        poco sarebbe valso cambiare mugnaio, infatti si dice che se te cambi 
        molinaro te cambi ladro. Molto 
        spesso il mulinaio aveva anche il possesso sull'utilizzo delle acque, 
        il cui sfruttamento rientrava nella possessione feudale.  
 Per poter esercitare il suo lavoro il mugnaio, a differenza di molti altri, quasi sempre sapeva leggere, scrivere e fare di conto (fare i conti) e questo dava alla sua figura ancor più importanza e rispetto agli occhi del popolo. I 
        mulini ad acqua hanno funzionato fino a metà Ottocentro o al massimo 
        inizio del Novecento, poi sono stati sostituiti da turbine elettriche 
        e poi sono andati in abbandono sostituiti da grandi macchine a motore 
        industriali.  Fra i numerosi canti che abbiamo recuperato vi è Pinota che racconta di un mulinaio un po' biricchino. 0 
        Pinota, bela Pinota, 0 
        Pinota, bela Pinota, E 
        la mama là dietro a l'ussio La 
        Pinota a sediciani 
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| Per 
          la coltivazione del riso i corsi d'acqua vengono adeguatamente canalizzati 
          in appositi campi bonificati con la giusta pendenza del terreno, al 
          riparo da gelate e con lo sfalcio dell'erba. Il riso è una pianta 
          che nasce dell'acqua e si sviluppa in immersione.  Il 
          duro lavoro della mondina durava complessivamente 6-7 settimane fra 
          maggio e giugno. Per tutto il tempo le donne lavoravano costantemente 
          nel bagnato, in un'acqua che odorava di fradicio, a gambe nude con le 
          gonne rimboccate fino alle cosce, le mani piene di crepe, il capo coperto 
          da un cappello di paglia che le riparavano dal sole e dalla pioggia, 
          la schiena curva per strappare le erbe. La loro pelle era ferita e irritaa 
          dalle erba, scorpioni d'acqua, cimici, zanzare, bisce, rane e stuoli 
          di moscerini. Durante la mondatura le donne ricurve avandavano in fila, 
          mentre per il trapianto indietreggiavano lungo la risaia.  
 La "battaglia per le otto ore" di cui la storia ci racconta impegnò molte mondine. Durante il lavoro era proibito parlare, ma era concesso cantare per accompagnare il lavoro nell'acqua, per dargli il ritmo "tum, tum". E le donne cantavano, cantavano per struggimento e per allentare la tensione, cantavano strofe di botta e risposta, facendo la cronaca della giornata, cante di opposiioni, di rivolta contro il padrone, contro la vita opprimente della risaia, ma anche di odio e amore di queste povere donne che assumono i caratteri del canto sociale. Moreto, moreto l'è un bel giovinéto che porta i capelli all'onda del mar... Mamma non piangere se sono consumata, è stata la risaia che mi ha rovinata... Sebben che siamo donne, paura non abbiamo, per amor dei nostri figli in lega ci battiamo... Sciur padrun da li béli graghi gianchi, fora li palanchi, fora li palanchi. Sciur padrun da li béli brachi bianchi, fora li palanchi c'anduma a cà.... Senti le rane che cantano, che gusto che piacere lassiare la risaia, tornare al mio paese... Poi, verso gl anni Cinquanta, sono arrivate le macchine che misero fine a queste situazioni sociali, culturali e umane. Di quell'epoca resta l'insegnamento e la memoria di chi l'ha vissuta sulla propria pelle e l'ha trasmessa con le proprie testimonianze e nelle cante arrivate ai nostri giorni. | 
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 Quando 
        l'ombrello si rompeva non veniva gettato, ma veniva riparato. L'ombrelaro 
        sapeva sostituire le stecche, il manico oppure mettere una toppa sulla 
        tela (tacon in dialetto) se vi era uno strappo o in casi estremi sostituire 
        l'intera tela se logorata. L'ombrelaro era un ambulante che si spostava portando con se i pochi attrezzi che gli servivano per il suo lavoro. Nel suo peregrinare aveva delle tappe fisse dove si fermava all'angolo di qualche via e sedeva su un gradino in attesa della clientela. 
 
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| Done el paroloto, 
            el stupa un buso e el ghe ne fa oto (donne lo stagnaio, tappa 
            un buco e ne fa otto).... questo era uno dei richiami utilizzato dal 
            paroloto per comunicare il suo arrivo nelle contrade e nelle strade 
            di paese. El paroloto spesso era un ambulante che effettuava le riparazioni lungo le strade, anche perché spesso non si aveva la disponibilità di altre pentole o padelle. Sul foglio di lamiera si applicavano le forme per ottenere l'oggetto desiderato e con un bulino si disegnavano i contorni; poi con una cesoia si ritagliava, si piegava, si modellava, e si saldava. Prima ancora di attaccare il manico agli utensili, si martellava tutto per eliminare quelle forme lisce o lucenti e dare così maggior resistenza. 
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 Ogni anno in tarda primavera o inizio estate quando l'erba nei prati è abbastanza alta, ma ancora tenera, si inizia a tagliarla, seccarla e portarla nel fienile per avere così la scorta di foraggio per l'inverno. Un tempo tutte le operazioni legate al taglio del fieno erano eseguite a mano. In alcune annate si riesce ad avere il fieno per un successivo secondo taglio, l'ardiva. Mentre in pianura è più facile avere grandi distese di prato pianeggiante, nelle colline veronesi i prati sono ricavati a spese dei boschi dove ancora oggi non è per nulla agevole coltivare lerba sui terreni, quasi tutti in forte pendenza. 
 La 
        falciatura comincia alle prime luci dellalba. Fin da lontano si 
        sente il rumore prodotto dalla falce che recide gli steli umidi di rugiada. 
         
 Lerba 
        falciata viene distesa e rivoltata più volte durante la giornata 
        per asciugarla bene. Dopo il taglio dell'erba intervengono le resteline, 
        prevalentemente donne che armate di 
        rastrello hanno il compito di rivoltare il fieno per arieggiarlo e farlo 
        seccare. Operazione molto importante perché un fieno umido e non 
        ben seccato dal sole rischia poi di ammuffire nel fienile e non sarebbbe 
        più idoneo per l'alimentazione animale.  
 Se 
        la giornata è ben soleggiata prima di sera il fieno è secco 
        a sufficienza, si procede quindi ad accumularlo in lunghe file che poi 
        vengono caricate sul carro e portate in stalla oppure vengono preparati 
        dei covoni sul posto che se ben preparati permettono di preservare il 
        fieno all'interno protegggendolo dalla pioggia e dalle intemperie. Il 
        prato viene ben rastrellato e lasciato perfettamente pulito.  
 Il fieno in stalla viene utilizzato per l'alimentazione animale (nel veronese soprattutto vacche ma anche pecore, capre, cavalli) nel tempo che intercorre tra il ritorno del bestiamo dai pascoli dopo la transumanza alla ripartenza per gli alti pascoli verso la fine di maggio. Il contadino deve quindi valutare bene di avere una scorta di fieno sufficiente da dosare al bestiame fino a quando non li riporterà fuori dalla stalla a brucare l'erba nei prati. Oggi 
        tutte le operazioni della fienaggione viene svolta per lo più meccanicamente, 
        tuttavia su alcuni versanti particolarmente ripidi dove non si può 
        accedere con nessuna macchina agricola il lavoro viene ancora svolto manualmente. | 
| SARTE (sarto) | 
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 El scarparo 
        (calzolaio) è colui che costruiva scarpe su misura e di lunga durata. 
        La qualità delle scarpe era legata alla flessibilità, leggerezza 
        e cuciture a mano. La durata era legata allabilità nel riparare 
        le scarpe, risuolatura, mettere i sopratacchi e ricucire le parti che 
        si andavano squarciando. Gli attrezzi usati erano delle forme in ferro 
        e in legno di varia dimensione che servivano per inserirci le scarpe, 
        un caratteristico ed affilatissimo coltello, il martello dalla forma caratteristica, 
        tenaglia, lesina, raspa, spago, aghi, colla, cera, pece, vetro per levigare 
        le suole e tutta una serie di piccoli chiodi, il tutto sparso su un basso 
        tavolo da lavoro.  
 
 
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| SCARIOLANTI | 
| Vedi paragrafo MEDIATOR | 
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| Era sovente vedere girovagare per le vie dei paesi gli spazzacamini dal momento che erano tanti i fumaioli da pulire. Un tempo infatti tutte le famiglie utilizzavano stufe e camini per riscaldarsi e fare da mangiare, quindi erano molte per lo spazzacamino le richieste da esaudire. Anche sulle colline veronesi transitavano gli spazzacamini, arrivavano per lo più dalla provincia di Trento, facevano due giri all'anno, uno verso fine ottobre inizi novembre e il secondo verso Pasqua. Spesso erano accompagnati da un ragazzino dall'aspetto esile e dal fisico quindi idoneo per passare dalle strette canne fumarie. Il 
          lavoro dello spazzacamino consisteva proprio nel ripulire le anguste 
          e sporche canne fumarie di stufe e camini dove vi rimaneva attaccata 
          la caludene che impediva il corretto fluire dei fumi del carbone 
          e della legna.  Gli attrezzi che utilizzavano per il loro mestiere erano il riccio, la raspa, lo scopino e le corde. 
 Sono numerose le canzoni sugli spazzacamini. Di seguito il testo del canto Spassacamin che narra di uno spazzacamino un po' biricchino. Spassacamin che vien 
          dai monti vien dai monti a la cità Salta fora 'na sposeta 
          la ghe dise 'l vegna qua El tira fora la raspeta, 
          'l tira fora el martelin Si ritiri bela signora, 
          si ritiri per carità El finisse de spassare, 
          el vien so par el camin El ghe dise no signora 
          mi no voio el borselin Informatore: Coro delle contrade 
 
 
 Cecilia 
          C. classe 1934 si ricorda che quando era piccola ed abitava a Bolca, 
          un paesino dei monti Lessini, tutti gli anni passavano due spazzacamini 
          (padre e figlio) di Trento che si fermavano sempre da loro per pulire 
          i camini delle abitazioni. La sera mangiavano insieme con la loro famiglia. 
          Dopo cena si inginocchiavano posando i gomiti sulla tovaglia, badando 
          a non macchiarla di fuliggine e intrattenevano la famiglia ospitante 
          con preghiere, filastrocche e storie. Si ricorda in particolare una 
          storia che narra di una vedova che accetta la sfida del diavolo di imparare 
          a memoria Le dodici verità di Nostro 
          Signore in cambio del pasto permanente per sè e per 
          i suoi figli. La donna presa dalle quotidianità domestiche si 
          dimentica del patto. La sostituisce Sant'Antonio nel dialogo col diavolo. 
           Tum, 
          tum - Chi è che batte - Amici per uno. Esiste 
          ancora lo spazzacamino, ma oggi i camini si puliscono per lo più 
          attraverso lutilizzo di apposite apparecchiature tecnologiche 
          che vengono inserite direttamente nei camini o nelle stufe più 
          moderne. Per pulire le canne fumarie non serve più intrufolarsi 
          all'interno, fanno tutto le macchine, anche se chiaramente c'è 
          comunque bisogno di un occhio attento che controlli loperato della 
          macchina.  | 
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 La 
         tiraossi era una guaritrice che con il magico massaggio 
        delle sue mani e l'utilizzo di qualche olio benefico leniva slogature, 
        dolore muscolare, mal di schiena. Il lavoro veniva insegnato e tramandato 
        di madre in figlia. Esistono 
        ancora delle donne che esercitano questo mestiere anche se ormai la gente 
        per risolvere i propri dolori si rivolge ai professionisti laureati in 
        fisioterapia. | 
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 Fonti 
        e informatori 
         La maggior parte di quanto sopra riportato è di nostra conoscenza, e dei molti anziani che negli anni ci hanno dato conferma con la loro testimonianza del sapere popolare. Per chi è in cerca di conferme o approfondimenti consigliamo la lettura di alcuni libri di seguito riportati. Dal libro "La Moscarola" del Canzoniere del Progno - Editrice La Grafica di Vago di Lavagno (VR)- GBE Gianni Bussinelli editore, 2017 Dal libro "Vita e tradizioni in Lessinia" di Ezio Bonomi - Cierre edizioni - 1994 Dal libro "Santi e contadini" di Dino Coltro - La Grafica di Vago di Lavagno (VR) - 1982 Dal libro "I proverbi no' i è mati" di Ezio Bonomi - editrice La Grafica di Vago di Lavagno (VR) - 2009 Dal libro "C'erano una volta vecchi mestieri" di Carlo G. Valli - Cierre edizioni - 2002 Dal libro "Di casa in casa" di Pier Paolo Frigotto - Cierre edizioni - 2015 Dal libro "Canzoniere del Progno" - Cierre edizioni - 1997 
 
 
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